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a cura di Vittorio Sgarbi, Brescia, cultura, eventi, follia, Il Museo della Follia. Da Goya a Bacon, Lago di Garda, mostra, MuSa, opere d'arte, Salò
Buongiorno a tutti,
oggi ritorno sul blog per parlarvi di un evento culturale che secondo me vale assolutamente la pena visitare. Si tratta della mostra intitolata Il Museo della Follia. Da Goya a Bacon e che ha aperto i battenti a marzo presso il MuSa, ovvero il Museo di Salò, e la quale tra i nomi più illustri annovera quello di Vittorio Sgarbi in veste di curatore. Personalmente non avevo mai dato molta importanza a questo museo forse oscurato da altre bellezze della città stessa in cui si trova, ma in effetti entrandovi per la prima volta ed assaporandolo con occhio virgineo ho avvertito una speciale aura che lo anima: un’aura patriottica che si esprime come luogo in cui si trovano custoditi dei cimeli, memorie fisiche, materiali e reali che hanno fatto la storia d’Italia. Non solo. In questo periodo e fino al 19 novembre 2017 il MuSa ospita una serie di opere d’arte, da oggetti, quadri, a documentari con svariate testimonianze che fanno da sfondo ad un grande macro tema: la follia.
E così possiamo vedere con i nostri occhi, in una cornice ai limiti del surreale (il museo infatti offre dalle proprie finestre splendidi scorci sul golfo di Salò e sul lago di Garda), l’espressione di questo modo di essere, o modus vivendi, che per scelta o per costrizione si è adottato. Si passa dal racconto della follia astratta che è possibile ammirare e cercare di carpire nei quadri di Goya, Ligabue, Cammarano, Bacon, e persino uno di Hitler (giusto per citarne alcuni), sino ad immagini che raffigurano i reali pazienti all’interno di ospedali psichiatrici e penitenziari psichiatrici, lettere e oggetti che narrano di innumerevoli vite accompagnate dalla follia o che hanno cercato di raccontare la stessa. La follia passa così dall’astrazione e dall’immaginario alla concretezza dei luoghi in cui si manifesta pienamente e dei racconti che ne vengono dati. Ma di fatto cosa è la follia? E’ una definizione e basta? Un passaggio? Un modo di essere? O forse un modo di comportarsi? La Follia è vera o è più vera la normalità? Che rapporti ha la follia con quest’ultima? E con la realtà? Ma magari la follia è semplicemente un sogno che appare più reale della realtà… Questi e molti altri quesiti sorgono nel momento in cui si dà spazio a tutti quegli stati d’animo che attraversano l’ignaro visitatore della mostra in questione. Io credo che dopo aver vissuto una mostra del genere si esca un po’ cambiati. Un bel po’.
La prima stanza in cui si viene condotti dal percorso obbligato è molto d’impatto. Nello specifico, la prima opera della quale si ha l’onore di fare la conoscenza narra di una Cleopatra morsa e ripresa in quell’attimo in cui dalla vita si passa alla morte. L’attimo del trapasso è immortalato con una capacità di comunicazione che attraversa il quadro tramite gli occhi della protagonista, punto d’impatto vivo riassuntivo. L’ho trovata stupenda nel suo spasmo mortale: quel che si dice la bellezza della morte (senza ironia)! Peraltro molto interessante è il commento ideato da Vittorio Sgarbi in merito alla stessa: commento riferito alla bellezza, al fatto che Cleopatra vuole rimanere immortale, senza compatimenti, mentre passa in rassegna la sua vita; una vita fatta di potere, successi e raggiungimento della massima soddisfazione che le permette di lasciarsi andare alla morte e forse di accettarla per ciò che è, in quanto non ha più nulla da perdere. Già ma cosa è la morte? E’ possibile intuirlo dai suoi occhi? E’ possibile leggerle attraverso? Beh, questa è un’esperienza da brividi che invito ognuno di voi a fare. Personalmente credo che il volto di questa Cleopatra abbia molto da dire; in esso sono riassunti l’apice del terrore e del distacco, l’inaspettato, il culmine raggiunto dal soffio vitale per poi passare al nulla, o forse rimanda a qualcos’altro che nessuno conosce o che nessuno ha mai conosciuto e ne è poi ritornato per tramandare questa conoscenza…
Nella stessa stanza, un altro quadro che ha catturato la mia attenzione ritrae una strega, nel quadro omonimo di Michele Cammarano. Il suo volto è come io ho sempre immaginato debba essere un pazzo: ridente di una follia segreta e ambigua che si perde nel vuoto del tutto. Certo può risultare un misto di follia condita di macabro, di conoscenza e di grottesco; di conoscenza che sa ma che non può spiegare perché va esperita. Di una follia che si prende gioco dell’ignorante. Ecco che avviene così la scelta del soggetto: una strega, figura che si pone da intermediaria tra il visibile e l’invisibile, che conosce e vede, o forse crede di conoscere e vedere ciò che l’uomo medio non vede e non sa, o magari non può vedere e/o sapere perché talmente succube del visibile da essersi dimenticato di accogliere e guardare l’invisibile.
Non è mia intenzione soffermarmi su tutti i quadri (anche se in effetti ognuno di essi meriterebbe l’attenzione che gli spetta), bensì solamente su ciò che mi ha impresso un’impronta profonda e quindi del tutto personale. Ad ogni modo essi sono pregni di un fascino oggettivo. Ognuno di essi lo è, a suo modo e con uno stile che gli è proprio. Persino il quadro di Hitler che si può osservare procedendo molte stanze dopo, pur risultando così cupo e quadrato, inquadrato e oserei dire imprigionato dalla sua stessa inquadratura, dà ragione della follia insita nella personalità del proprio autore…
Di lì a pochi passi un’altra opera che mi ha polarizzata ed anche piuttosto impressionata è un dipinto a tecnica mista che raffigura una donna (molto probabilmente, anche se nulla vieta di pensare che si tratti di un uomo) coperta dai capelli e il cui sguardo trapassa la tela rendendosi vivo attraverso la particolare lucidatura effetto “bagnato” che lo rende proprio inquietante: le tele e gli intrichi dei suoi capelli si colorano di quella terza dimensione che la rende viva, tanto quei capelli sembrano muoversi mano a mano che la luce riflette il bagnato. Il soggetto rappresentato mi ricorda al contempo un po’ Gesù e un po’ il diavolo nel film di Mel Gibson La Passione, con tratti che fungono da compendio tra bene e male, tra essenza e personalità. Sono tratti misteriosi e lugubri, quasi scevri da sofferenza (o che forse ne esprimono la conseguenza?), ma che piuttosto contengono decisione e mistero: qui l’intrico di una vita disturbata si estrinseca per tutta l’estensione della tela.
Ad ogni modo è così che nell’ultima stanza, prima di venire introdotti in un corridoio di altre opere, oggetti, cimeli che conduce all’uscita, troviamo loro: illuminati da un pannello elettrico le foto di alcuni pazienti psichiatrici. Lo sguardo dei pazzi reali costituisce una mescolanza di disperazione, distacco, tristezza, irrealtà, rabbia, violenza, derisione, sprezzo per tutti coloro che sono al di qua del confine sanità-follia. In tutti i volti ritratti si percepisce l’avvenuto contatto con l’abisso: una ferita che non si può non sentir esprimere da ognuno di essi! E ciascuno di questi protagonisti ha scolpito sul proprio volto il tentativo che ha fatto per interagire, elaborare, comprendere questo abisso. O perlomeno dargli un significato. C’è chi tra questi volti si fa leggere, mentre altri risultano imperscrutabili. C’è chi esprime il tentativo di sopperire alla ferita come meglio ha potuto, o con un volo d’anima o lacerandosi quell’essere impalpabile eppure presente che li abita, per sopravvivere ad una normalità imposta.
Eppure cosa è la sanità? E cosa la pazzia? Esiste davvero una linea di demarcazione tra le due? Perché in alcuni volti regna l’incomprensione, il fatto di non aver capito perché si viene ritenuti pazzi… Si ha l’occasione di osservare anche volti dimentichi di sé, volti che sono semplicemente maschere e sembrano stati abbandonati da ogni parvenza di coscienza. Insomma, quello che si percepisce è proprio questo: il fatto che la pazzia abbia vari volti; talvolta le immagini che saltano all’occhio sono strazianti, inquietanti, talvolta strappano un sorriso oppure un senso di ambiguità. Quel che è certo è che non lasciano indifferenti!
Ma ancora potremmo disquisire sul fatto che più che la perdita, è la disperazione forse il volto della follia vera e propria che non può trovare espressione verbale in un unico aggettivo, perché la follia è poliedrica e per darne ragione occorre dipingere tutte le possibili reali sfaccettature. A queste e a tante altre riflessioni mi ha condotta questa mostra. Ma soprattutto: perché la follia è stata da sempre così importante e così declamata? Follia, amore, morte, vita e senso della vita sono dei temi che hanno da sempre accompagnato l’uomo nel condurre la propria esistenza. Che siano un germe di ciò che in potenza può diventare l’anima che anima ogni essere vivente? Io non ho risposte, ma il fatto che ad un tema così grandioso venga dato spazio e soprattutto venga mostrato è espressione di ciò che c’è, c’è stato, di ciò che può essere e che può venire elaborato.
Se qualcuno è andato a questa mostra e ha piacere di condividere la propria impressione/opinione si senta libero di scrivere e condividere il proprio pensiero. Per tutti coloro che invece stanno leggendo e si sentono in un qualche modo invogliati ad andarci, mi sento di dir loro: andateci senza esitazione. E’ un’esperienza policulturale e polisensoriale indescrivibile.
Un caro saluto e alla prossima!